- mar 18 nov 2014 16:38
#181498
SETTIMA PARTE
Nella mia impazienza gioca il fatto che in quella zona non sono mai stato e trovare qualcosa, sarebbe la conferma che le mie intuizioni erano esatte. L’aria viene dall’alto, c’è qualcosa che non va, Buch comincia impercettibilmente a muovere la punta della coda. Non ce l’ha più nel naso! Gli è andato via. Allora è un cedrone. Poldo capisce e arriva tutto lungo per affiancare il setter. Si mettono a filare in su. No, non è possibile, se fosse così, Buch avrebbe guidato prima. È sotto! L’aria viene da sopra e il cane è stato ingannato e continua a sbagliare, è sulla passata del selvatico alla rovescio. I cani vanno in alto a passo spedito e in filata su quello che pensano siano l’emanazione diretta dell’animale, ma invece sono solo sulla sua passata, è venuto giù di li, ma si sta dando alla fuga verso il basso. Ne sono quasi certo. Non è semplice dare retta al proprio ragionamento che si fa in una frazione di secondo e non seguire i cani che sembrano avere davanti al loro naso un leone. Mi volto e a passi lunghi e ben distesi vado in giù, sarà quel che sarà. Il campano di Buch non lo sento più, vuol dire che si sono allontanati parecchio, ma se ho ragione io, tornerà indietro tutto trafelato e con lo sguardo serio di corsa. Continuo a scendere, ma che cavolo sarà? Ecco arriva Buch, non mi sono sbagliato, ha capito anche lui. L’altro cane invece non arriva. È col naso in terra, segue la pista come un segugio. Che sia una lepre? Il bosco sta per finire e ricomincia la radura. È il momento della verità, se è tra noi e la radura, volerà, tenterà di andarsene con le ali ed eccolo, eccolo, come una portaerei nera, col rumore di un fuoribordo bimotore, parte a tutta cercando di guadagnare il vuoto della radura. È un gallo cedrone maschio adulto. I suoi cinque chili gl’impediscono di essere velocissimo nello stacco, ma se parte in corsa allora veloce lo diventa subito. La foga me lo fa sbagliare di prima canna, ma lo becco di seconda. S’imbarca, è colpito, ma non cade, esce dal bosco, apre le ali e supera velocemente la radura, ma non prende quota. S’infila subito dentro al bosco. È ferito grave e mi metto a correre per come posso con lo zaino il fucile e tutto il resto. I cani lo inseguono eccitati. Nella radura, c’è una buca con dell’acqua, è profonda un metro, non la vedo, inciampo e ci vado dentro fino alla pancia. Mi tiro su e impreco. Sento l’acqua che entra dentro lo scarpone di sinistra, è ghiacciata e come una lama, si fa strada fino alle dita, ma dopo un attimo non la sento più, si è scaldata subito, vuol dire che è poca. Nell’altro piede invece non ha fatto in tempo ad entrare. Sono zuppo. I pantaloni sono bagnatissimi sul davanti, i guanti sgocciolano e anche la camicia la sento bagnata, ma non fredda. Cerco di accelerare ancora ed entro nel bosco dove ho visto quell’enorme tetraonide entrare ferito. I cani sono spariti. Il campano è lontano, sembra dal battito ravvicinato del campanello, che Buch stia rincorrendo. I Cedroni se hanno le gambe buone, corrono veloci come un cane e con improvvisi cambi di direzione possono far perdere le loro tracce. Ma con Buch sarà dura per lui. Finalmente mi sono avvicinato al punto dove presumibilmente ha messo i piedi a terra. Buch è là ce l’ha tra le zampe, è morto. Poldo è li che gli gira attorno, ma non osa avvicinarsi, sa che la preda è del setter. L’annuserà dopo con calma, quando io gliela farò sentire. Buch sa che io sono il capobranco e che il Cedrone me lo deve portare. Ci prova, ma pesa troppo. Lo trascina per un po’ e poi gli arrivo vicino: bravo Buch, bravo Bucaniere, bravo Nabucco, bravo. Anche tu vieni qua, dai Poldo che non ti fa nulla, vieni qua. È bellissimo, un animale preistorico. Ha le squame sulle dita dei piedi, il becco lungo e ricurvo è duro come un corno, la coda ha penne lunghe quaranta centimetri. È di un nero antracite e le penne del collo sembrano tanti piccoli ventagli. Sarà almeno cinque chili. Sono felice, molto felice. Avrà, guardandogli il becco così lungo più di otto anni. I cani sono li accucciati, si godono anche loro la vista della preda. Li canzono un po’: “se non fossi stato io a capire che era andato in giù chissà dove sareste voi a quest’ora” e li accarezzo e li liscio e li coccolo e loro capiscono e uggiolano festosi. Mi guardano negli occhi. Occhi sinceri che non sanno mentire. Comincio a sentire freddo, devo andare al sole e accendere un fuoco. Ho imparato in Lapponia che il sistema più rapido per appiccare un fuoco è quello di servirsi della corteccia di betulla secca. Lì attorno ce ne è in abbondanza. Ormai è ora di mangiare un boccone e allora m’incammino per trovare un ruscello ed accamparmi. Ce n’è sempre qualcuno che viene giù dai monti, ma quel giorno per trovarne uno impiegai mezzora. Finalmente l’acqua limpida è li a portata di mano. Sento un fastidioso “bruciorino” dietro al calcagno del piede bagnato. Mi sarò fatto una bolla, una fiacca insomma. Il fuoco brucia che è un piacere, sono al sole che va e viene dietro a rapide nuvolaglie. Le betulle li attorno mi serviranno d’attaccapanni e metto tutti i vestiti bagnati ad asciugare. Guardo l’ora e mi accorgo che l’orologio si è fermato. Dalla fame sarà l’una. Per asciugare tutto mi ci vorrà un’oretta e così metto sul fuoco la padella a scaldare. Sono in mutande con gli scarponi e i piedi nudi, per far asciugare bene le calze anche se ne ho un paio di riserva. Sul calcagno dove ho fatto una bella bolza, metto un Compeed ed il problema è risolto. Il piumino sintetico mi scalda a sufficienza. La maglietta da sotto in Capilene sarà asciutta presto. Il profumo che fa la pancetta con le uova, farebbe resuscitare anche il Cedrone se non lo avessi già ben starnato. Le interiora peseranno più di mezzo chilo ed è peso in meno da portarsi dietro. Abbiamo mangiato tutti e tre. Ora sono sdraiato in una piccola conca di muschio asciutto, avvolto nella coperta di stagnola, col fuoco che arde a due metri e un bel bicchiere di the caldo in mano. Aspetto solo di chiudere gli occhi ed usare lo zaino come un morbido cuscino. Posso dormire mezzoretta, così tutto si asciuga e posso ricominciare l’esplorazione facendo un semicerchio a U per portarmi verso l’accampamento. Se decidessi di andare per la via più breve verso il campo, mi ci vorrebbero circa quattro ore, allungandola un po’ per coprire più territorio, ce ne vorranno sei. Non so se è una buona idea, ho il cedrone da portare e poi il tempo sta cambiando, l’aria si è rinfrescata, non vorrei prendere dell’acqua. Ci dormo sopra un po’. Mi sveglio che le prime gelide gocce vengono giù pesanti. Mi muovo rapidamente per vestirmi. I panni sono ancora umidi, ma vanno bene. I calzini li metto nuovi. Sono costretto a mettere su l’impermeabile di GORE-TEX. Ora piove per davvero. Non ho con me i cosciali impermeabili, ma fa lo stesso. Ho le ghette fin sotto alle ginocchia e l’impermeabile arriva fino all’inguine, vado bene. In testa ho il solito cappello di loden, avrà vent’anni e l’acqua la tiene bene e poi ho anche il cappuccio. Le nuvole si compattano e non vedo più la montagna di riferimento, ma non fa niente, devo andare in là. Cammino per un paio d’ore e i cani trovano un bel volo di pernici artiche; sono numerose, quattordici o quindici. Non gli sparo, ci porterò gli amici il giorno dopo. Ne trovo un altro volo vicino ad una radura di erba gialla, ne stacco una, per mangiarla alla sera al rientro. Il petto di pernice artica fatto in padella con un po’ di panna e cognac è una prelibatezza. Si prepara in pochi minuti, perché la pernice basta scuoiarla ed è un attimo. Il segreto sta nel non farla cuocere troppo, deve essere ancora rossa dentro e poi ci metto dentro il fegato e il cuore. Un buon bicchiere di vino e ci si sente in paradiso.
La pioggia era diventata violenta, il pointer si era agghiacciato e faceva il “bagarozzo” con grande sofferenza. Se mi fermavo sotto ad un larice a prendere fiato, Poldo si metteva a scavare per creare un rifugio. Cominciavo ad essere stanco. La visibilità si era ridotta di molto e spesso le nuvole sfioravano il terreno ed una fastidiosa nebbia non mi faceva vedere a più di dieci, quindici metri. Non pensavo di essermi perso, ma alcune certezze erano svanite. Intanto non riuscivo a capire se la montagna che avevo sempre avuto sulla mia sinistra era finita e quindi se avevo iniziato a girarci attorno. Pensai anche di andare su in vetta, ma poi con quella visibilità non avrei visto niente. Avevo tolto il campano dal collo di Buch, perché ormai anche lui, tutto fradicio, mi girava vicino. Ogni tanto, come una voce lontana, mi sembrava di sentire un campanellino, ma non potevano essere i miei compagni di caccia, poteva essere solo una renna semidomestica. A volte i pastori Lapponi usano mettere alle renne dei collari arancioni e anche un campanellino. Non so a cosa possa servire esattamente, ma quel suono cristallino ogni tanto mi giungeva nel vento. Trovai un abete enorme e mi fermai un po’ a riflettere. Li sotto si stava asciutti. In terra c’era la polvere e le fatte vecchie di un Cedrone. I rami tutt’intorno toccavano in terra, era un buon riparo. Dovevano essere le quattro o le cinque del pomeriggio ed era dalle otto del mattino che ero in giro. Non dovevo essere molto lontano dal campo. Nella mia testa c’era il percorso che avevo fatto, ma sulla cartina, non vedendo per la nebbia, non riuscivo ad avere certezze. A quel punto avevo poche alternative: tentare di scavallare il monte che stava sulla mia sinistra e tentare di finire nella valle del nostro campo e poi sperare che la nebbia si aprisse un po’ per riconoscere i monti grandi , quelli di riferimento. Oppure fare il nido ed aspettare che schiarisse. Era troppo presto per fermarsi, lo avrei potuto fare più avanti. Preferivo tentare di rientrare. Esortai i cani a riprendere il cammino. Mano a mano che prendevo quota sul monte, il bosco si diradava e il vento e la pioggia entravano tra gli alberi sempre con maggiore forza. Dovevo tenere calde le mani. Ero sufficientemente coperto per la marcia, anzi sudavo copiosamente dentro all’impermeabile, ma la pioggia era gelata. Del resto in Lapponia anche su monti di appena mille metri, nei versanti a Nord, rimangono ghiacciai perenni e quindi lì la temperatura scende anche in luglio e agosto, sotto lo zero. Salendo uscii completamente dal bosco dove i mughi e i licheni che col sole assumono colorazioni brillanti, erano grigi come il piombo. I cani dietro di me e cercavano di stare al riparo della mia figura. Sopra al cappello di loden mi ero infilato il cappuccio dell’impermeabile in GORE-TEX, perché il vento mi spingeva l’acqua dentro al collo e giù per la schiena ed invece con quel riparo perdevo in visibilità ed udito, ma intanto non c’era nulla da sentire e purtroppo da vedere. Il pericolo di quando si arriva sul crinale di un monte spoglio di vegetazione e quasi piatto è quello di non riuscire a tenere una direzione precisa e di trovarsi a scendere dal versante sbagliato; figuriamoci se la visibilità è quasi azzerata. Fino a che riuscii a capire che sulla mia destra c’era la pendenza da dove ero salito, riuscii a mantenere una direzione logica, ma appena me ne allontanai, iniziai a camminare senza più una meta. La visibilità, il vento e la pioggia intensa mi fecero andare in confusione e l’acqua che prima veniva giù fitta, si trasformò in ghiaccio. Le palline di ghiaccio producevano sul cappuccio un rumore intenso, come quello di una macchina da cucire che ripete i punti ininterrottamente. Mi pentii di non aver fatto un campo sotto quel comodo abete dalle grandi fronde, ma ormai era fatta. Mi orientavo con molta approssimazione solo col vento che dovevo tenere dietro da destra, proseguii per una buona mezzora, fino a quando non ricominciai a scendere. Se non mi ero girato di molti gradi, dovevo aver raggiunto il versante della valle dove doveva esserci il nostro Campo fisso. Cercai accelerando il passo di raggiungere il bosco dove il vento mi avrebbe tormentato con meno intensità. Ogni fosso e rigagnolo, si era trasformato in torrente e mano a mano che calavo, mi rendevo conto che i torrenti, una volta raggiunte pendenze meno accentuate, si sarebbero allargati e avrebbero potuto creare seri ostacoli per attraversarli. Non avere l’orologio che funzionava, mi metteva più di malumore. Ormai dovevano essere le sei di sera e potevo camminare per tre ore, ma poi mi sarei dovuto accampare e prepararmi a passare la notte. Non sarebbe stato facile. Giù nel bosco di abeti e betulle, il vento non dava più fastidio e l’acqua era tornata semplice pioggia. Mi tolsi il cappuccio, perché con le orecchie libere mi sembrava di vederci anche meglio. Ormai non avevo più una meta, cercavo di seguire il declivio, sperando d’incontrare il grosso fiume che alimentava il lago ai piedi della montagna grande. Se l’avessi trovato, lo avrei potuto seguire per un bel tratto e poi sperare di farmi sentire con qualche fucilata per aria dai miei amici. Il terreno mi sembrava tutto uguale. La visibilità era sempre solo di dieci quindici metri e sentivo che mi stava tornando un certo appetito. Il cedrone che avevo dietro nello zaino mi sembrava pesasse sempre di più anche perché lo zaino, nonostante l’avessi coperto con il suo involucro impermeabile si era bagnato e ci metteva anche del suo sulle mie spalle.